iL TACCHiNO VEGETARiANO

Il pretesto era un ritorno temporaneo al “magnar da cristiani” del mio amico architetto, vegetariano da alcuni anni.

Comunque, più o meno è andata così: “facciamo un pranzo da te, ognuno porta qualcosa e tu mi dovresti cuocere un tacchino”. Ora di preciso non l’ho capito il perché di sto tacchino, ma io l’ho preso alla lettera e dagli amici Nogara mi son fatto procurare una tacchinella coscia lunga. Alla faccia del nomignolo, il volatile pesava, spiumato ben 7kg!!!

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Avevo già fatto un’esperienza così anni fa per un natale a casa Marchesini e quindi ho bissato la ricetta.

La particolarità del tacchino come anche altri volatili tipo pollo, fagiano, ecc è la magrezza. Si tratta di una carne leggera, molto delicata sia appunto per la mancanza di grasso ma anche per il sapore.

Ho preferito non fare il ripieno, a parte il fatto che all’interno ci potrebbe stare un quantitativo enorme di cose (tipo na sopressa) ed essendo già tanta roba l’animale ho messo al suo interno solo del sale grosso e un bouquet di rosmarino, salvia, alloro, timo e solo la parte arancione della buccia di un paio d’arance.

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Per il trattamento esterno, come l’altra volta ho optato per un burro, salato con sale maldon e lavorato con le mani aggiungendo un mix di erbette che ovviamente non divulgherò nemmeno sotto tortura. A parte avermi fatto un ottimo trattamento per le mani in vista del rigido inverno, con la “magica pomata” ho massaggiato il volatile in lungo e in largo.

Una volta finito mi sono dedicato alla sua vestizione con un manto di reticello di maiale. Devo essere sincero, l’effetto una volta vestito non è dei più invitanti, ma il tacchino avendo una pelle molto sottile, secondo me, abbisogna di una protezione.

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I liquidi: olio buono, il succo delle arance rimaste prive della loro livrea arancio e del vino durello dei colli berici, al bisogno per bagnare, diciamo da verso metà cottura.

E ora arriva il bello: la cottura, qui entra in campo la saggezza di Emiliano che mi spiega i tempi lunghi, le basse temperature e quindi in pieno stile “slow food”, 12 ore di cottura a 90°.

“bisogna esser pieni de bon tempo” mi avrebbe detto la mia nonna Rosina, ma tant’è che alla fine il risultato è stato davvero spettacolare, ne è valsa la pena di coccolare, osservare, accudire la cara e dolce tacchinella per tutto questo tempo.

In accompagnamento, la gregaria di questo piatto, che per sapore potrebbe anche surclassare la carne, è la salsa gravy, in questo caso, una nostra reinterpretazione: Finocchio di campo nostrano, in questo periodo sono fantastici, sedano bianco, scalogno, aglio e carote. Il tutto tagliato a pezzetti e fatto rosolare, quasi bruciacchiare in padella con solo un filo d’olio e un po’di sale. Una volta saltate ben bene le andiamo a mettere in forno ad appassire con calma.

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Con l’aiuto dello scettro della cucina moderna, il minipimer, andremo a creare una salsa con il sugo di cottura dove il burro, il reticello e gli umori del pennuto si sono lentamente sciolti fino a creare un elisir di bontà. La salsa andrà ad accompagnare il petto che andremo ad affettare abbastanza sottile.

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Si diceva con Mattia che cuocere una pietanza così grande da un senso di convivialità, come la porchetta, porzionata al tavolo o comunque “a vista” rende il tutto molto bello e di sicuro impatto.

#bontutto